L’urlo.
Straordinaria è l’immediatezza e la forza descrittiva dell’urlo di Munch.
Nella lacerante solitudine un urlo disperato invoca un riconoscimento.
Intorno solo il silenzio e l’indifferenza, nessuno che risponda, nessuno che accolga l’invocazione.
Inaudito quell’urlo diventa afono, un suono senza senso, una smorfia muta e sorda di dolore.
Possiamo considerare l’urlo di Munch come emblematico del vuoto in cui è precipitata l’esistenza dell’uomo contemporaneo, vuoto di legami, vuoto di amore e di senso.
Lo sfondo da cui erompe quell’urlo è la solitudine piu assoluta, l’abisso in cui oggi è sprofondata l’umanità: perduti nel vuoto, disancorati dalla trama dei legami di solidarietà e di amore con gli altri, senza più l’orientamento di un ideale che ne sostenga il cammino, senza più nemmeno dei e angeli ad abitare il cielo, gli esseri umani brancolano nel buio.
Tutto appare vuoto, la terra e il cielo, fuori e dentro di noi.


L’anima smarrita.

Questa condizione di smarrimento, di perdita d’anima, in cui l’individuo è estraniato da sè e non riesce più a trovare il contatto nè all’esterno con gli altri esseri umani, nè all’interno con se stesso è oggi una condizione talmente diffusa che chi ne soffre è convinto che sempicemente la vita sia così e che gli uomini non abbiano un’ anima.
Il nostro mondo è diventato un luogo inospitale per l’anima : stiamo perdendo il senso di appartenenza all’umano, in senso di comunione con le potenze invisibili del cielo, il legame di amore e coraggio con la vita.
Se vogliamo arrestare o limitare il deserto che avanza, fuori e dentro di noi, abbiamo bisogno di ritrovare la nostra anima, abbiamo bisogno di luoghi di incontro, di confronto, di condivisione dell’esperienza, di cosa significa abitare questo mondo, di un luogo di riabilitazione e cura della parola, di ascolto del cuore.

Che senso ha questo caos in cui tutti viviamo?
Siamo tutti pazienti sofferenti e possibili medici, immersi nella sostanza dello stesso mondo.
“Che senso ha questo caos in cui tutti viviamo?” Questa è la domanda fondamentale che si pone l’anima turbata.
Siamo tutti in quanto abitanti del mondo invitati a riflettere sulle parole del poeta inglese Jonn Keats “ chiamate, vi prego, il mondo la valle del fare anima. Allora scoprirete a cosa serve il mondo.”
Percorrere il sentiero dell’anima significa assumere fino in fondo la fatica di esistere in questo mondo senza tuttavia essere fagocitati dalla dimensione anonimizzante di questo mondo, senza perdere il contatto con la singolarità del proprio esserci, omologati al discorso sociale dominante, significa assumere la responsabilità e l’attitudine del ricercatore.
Coloro che sono impegnati autenticamente nella ricerca non sono mai soli.
L’anima ci parla attraverso i sintomi.
L’anima smarrita e turbata manifesta la sua sofferenza con il sintomo.
Angoscia, panico, depressioni, anoressie, bulimie, dipendenze, sono tutti sintomi di questo disagio, manifestazioni di un’anima in cerca di cura e ascolto.
Se non prestiamo attenzione i sintomi diventano come urla che cadono nel vuoto e non serve cercare semplicemente di sopprimerli con dei farmaci.
Abbiamo bisogno di capire che quel sintomo ha un valore, contiene un messaggio, che è la nostra anima che sta cercando con urgenza, aiuto, consolazione e amore. L’anima presente nella nevrosi cerca di farsi udire, di fare impressione alla nostra mente ottusa e caparbia, a quel mulo impotente che con ostinazione pretende di tirare dritto senza mai cambiare.
Il sintomo è l’espressione di una psiche che si desta decisa a non tollerare altri soprusi, altre trascuratezze, di un’anima che chiede tempo, tenera cura e attenzione.


Il valore dei sintomi. Trasformare le ferite in perle.

Secondo James Hillman gli alchimisti avevano un’immagine molto appropriata per esprimere la trasformazione della sofferenza e del sintomo in un valore dell’anima. Uno degli obbiettivi del processo alchemico era la creazione della perla perfetta. La perla all’inizio è un granello di sabbia, un sintomo o un disturbo nevrotico, un fastidioso corpo estraneo penetrato nella nostra segreta carne interiore nonostante tutti i gusci difensivi.
Il granello viene ricoperto strato su strato, elaborato incessantemente, finché un bel giorno diventa una perla.
Liberata la perla dalle valve sigillate dopo aver pescato nel profondo ecco che il granello di sabbia è redento. Possiamo indossarlo sulla pelle calda perché mantenga il suo splendore: il complesso psichico che un tempo provocava sofferenza con il lavoro occulto è diventato un tesoro; ora trasformato può essere esposto alla vista di tutti come una virtù.
Per Hillman occorre dunque dare valore al sintomo e non cercare di eliminarlo subito perché significherebbe escludere la possibilità che questo un giorno assuma un grandissimo valore anche se da principio è un corpo estraneo intollerabile, vile, distorto.


La ferita dell’abbandono.

Nel buio della notte un bambino piange ma non c’è nessuno ad ascoltarlo, a riconoscere in quel pianto una invocazione di aiuto, una chiamata all’altro, una attesa disperata di amore alla ricerca di qualcuno che risponda.
Se quel pianto si perde nella notte tutto diventa piu oscuro e si apre l’abisso dell’abbandono: paralizzati dall’angoscia siamo gettati nella inermità e nella impotenza piu assoluti.
Tutti noi in qualche modo durante l’infanzia abbiamo provato l’esperienza di essere stati fisicamente ed emotivamente abbandonati.
Tutti ci portiamo dentro questa ferita , l’abbiamo sepolta nel profondo del nostro inconscio per poter sopravvivere, abbiamo cercato di dimenticare quell’abisso di angoscia e impotenza.
Ma il nostro inconscio non è un luogo inerte dove ciò che abbiamo depositato giace inattivo.
La nostre ferite di rifiuto e abbandono abitano dentro di noi e come una spina nel cuore influenzano i nostri comportamenti, il senso della nostra amabilità, l’amore e la fiducia che nutriamo in noi stessi e negli altri, le nostre relazioni intime.
Quando facciamo l’esperienza di perdere qualcuno o di essere rifiutati la nostra ferita si risveglia e siamo come proiettati nel tempo passato del trauma.
Le nostre ferite di abbandono non riconosciute, non guarite sono la ragione principale per cui evitiamo l’intimità e ci teniamo lontani dall’amore: abbiamo paura di riprovare quel senso di abbandono.
Evitiamo di correre il rischio dell’amore mantenendo le nostre relazioni superficiali ci ci rassegnamo a vivere isolati, in solitudine, nell’illusione dell’autosufficenza, facciamo di tutto per evitare di aprire con fiducia il nostro cuore esponendoci al rischio di provare quelllo stesso senso di tradimento e di abbandono che abbiamo provato da bambini.


Come si manifesta?
L’attacco di panico si manifesta all’improvviso con un senso di terrore radicale ed imprevedibile, con la sensazione di poter morire o di impazzire, di avere un attacco cardiaco o respiratorio.
Sono comuni sensazioni di palpitazioni, sudorazione, formicolii, vertigini, respiro affannoso. Gli attacchi di panico lasciano spesso dietro di sé un senso di stordimento e la paura che l’esperienza si possa ripetere senza sapere quando e senza poterne riconoscere le cause.
La paura del panico porta la persona a rinunciare alle normali attività di lavoro e a chiudersi in casa nel tentativo di ridurre le occasioni di pericolo di un nuovo attacco, ad isolarsi sempre di più e ad avere difficoltà anche nel cercare aiuto.
Chi soffre di panico di solito attribuisce, in un primo momento, la causa del suo disturbo ad un malfunzionamento organico e si rivolge al medico di base o ancora più frequentemente chiede aiuto al pronto soccorso.
La crisi di panico espone chi ne fa esperienza con un senso di radicale inermità: la vita appare come appesa ad un filo.
Questa condizione di fragilità dell’essere umano che costituisce una verità indubitabile per tutti, ma che rimane celata alla consapevolezza, con il panico improvvisamente emerge in tutto il suo orrore e straripa fino a sommergere il soggetto.

Da cosa possono dipendere le crisi di panico?
Il panico è causato dall’incontro con una minaccia incontrollabile. Chi sperimenta il panico avverte una caduta dell’identità, si ritrova solo e disorientato, con un senso di sconcertante estraneità.
I legami solidi di amicizia, le relazioni stabili d’amore contrastano il panico; la solitudine, la competizione e la conflittualità esasperata lo favoriscono.
Attualmente un’imponente pressione sociale spinge al godimento solitario dell’oggetto (cibo, alcol, droghe, internet, oggetti di consumo) e porta le persone a disinteressarsi degli altri e a rifiutare i legami.
Massimo Recalcati parla a questo proposito di civiltà “dell’anti-amore” che si mostra come il tratto decisivo alla base della diffusione attuale degli attacchi di panico.

Come si può curare il panico?
Il ricorso a farmaci specifici può contribuire a tenere sotto controllo gli episodi di panico ma non è sufficiente e risolutivo per individuare le cause della sofferenza su cui agire.
La psicoterapia psicanalitica individuale o di gruppo offre un luogo d’ascolto della sofferenza e della storia unica e particolare del paziente aiutandolo a riprendere il filo della sua vita.
La psicanalisi è un percorso di cura finalizzato alla valorizzazione della particolarità più intima e vitale dell’individuo.
Il panico è un sintomo che esprime che c’è qualcosa che non va nell’individuo, non tanto nel suo corpo quanto nelle sue scelte di vita.
Chi soffre di questo sintomo ha trascurato il proprio desiderio, la propria vocazione più profonda e preziosa.
Lo scopo di una psicoterapia individuale o di gruppo è il recupero e la valorizzazione delle passioni, dei desideri vitali, e della vocazione esistenziale dell’individuo.

Depressione
Sentirsi tristi, disperati, perdere interesse verso il mondo, smarrire il senso della propria esistenza, sentirsi nulla, di non essere niente, l’uomo o la donna più miserevoli: chi abbia conosciuto la depressione almeno una volta nella propria vita riconoscerà facilmente come familiari questi vissuti.
Quando cadi in depressione ti ritiri progressivamente in un isolamento fatto di solitudine e di rifiuto del mondo, tutto diventa difficile: lavorare, prendersi cura di sé, dei figli, aver cura del legame con il proprio partner.
Il futuro appare senza prospettive e nulla riesce a contrastare la mancanza di vitalità che a poco a poco spegne chi soffre di depressione.
La depressione è un male antico che esiste da sempre e del quale troviamo descrizioni anche in periodi storici molto lontani.
Noi oggi ne parliamo come il male del XX° secolo, perché attualmente questa malattia si è diffusa in modo dilagante, tanto che nel linguaggio comune ha finito per indicare ogni forma di sofferenza psichica senza più distinguere fra tristezza, fatica di esistere, disperazione conseguente a un lutto, melanconia.
La depressione è in effetti un male che colpisce oggi le società occidentali o occidentalizzate dove si è avuto il maggior sviluppo delle tecnologie e del benessere.
Nella società consumistica dove tutto sembra essere possibile, a portata di mano, di bocca, di orecchio, dove sembra non mancare nulla si verifica quel calo del desiderio vitale che contraddistingue il male oscuro.
Per riprendere il filo della propria vita un aiuto può venire dai farmaci, ma il loro uso non è risolutivo, infatti non agiscono sulle cause profonde che hanno portato la persona a rifugiarsi nella depressione in un particolare momento della sua vita.
La psicanalisi offre un luogo di ascolto della sofferenza e della storia unica e particolare di ognuno.
La sofferenza della persona va innanzitutto accolta ed ascoltata, il sintomo depressivo è un messaggio da decifrare di un’anima turbata in cerca di cura e attenzione.

RIVELAZIONE

Facciamo di noi un luogo appartato
dietro parole leggere di scherno e di ironia
ma quanta agitazione nel cuore,
finché qualcuno davvero non ci trova.
La vita esige coraggio,
che parliamo per ispirare la comprensione di un amico.
E’ così per tutti,
dai bambini che giocano a nascondino
fino a Dio lontano.
Chiunque si nasconda troppo bene,
dovrà parlare e dirci dove sta.

NON NASCONDERSI PIU’

“Non è il teatro che è necessario, ma assolutamente qualcos’altro.
Superare le frontiere fra me e te:
arrivare ad incontrarti per non perderti più fra la folla,
né fra le parole,
né fra le dichiarazioni, né fra idee graziosamente precisate,
rinunciare alla paura e alla vergogna alle quali mi costringono i tuoi occhi appena gli sono accessibile tutto intiero.
Non nascondermi più, essere quello che sono.
Almeno qualche minuto, dieci minuti, venti minuti, un’ora.
Trovare un luogo dove tale essere in comune sia possibile.”
Gerzy Grottosky.

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